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Intervista al fotografo Roberto Villa

Abbiamo voluto conoscere meglio chi ha reso possibile la mostra Dario Fo e l'arte contemporanea a cura di Vittorio Sgarbi e Salvo Nugnes. Chi per oltre sessant’anni ha collaborato con Dario Fo e ora ne porta il nome e il ricordo in mostra attraverso le sue immagini. Si tratta del fotografo di fama internazionale Roberto Villa, semiologo e studioso dell’immagine, amico di Dario Fo e Pier Paolo Pasolini.


Finalmente a Roma con la mostra dedicata a Dario Fo. Come vi siete conosciuti e cosa l’ha spinta a proporre una serie di mostre sul Giullare Nobel?

1968, Genova, Camera del Lavoro, è lì che ci siamo incontrati. Da studioso dei linguaggi delle arti ero molto interessato allo sperimentalismo ed alle innovazioni nel mondo della comunicazione delle diverse forme dello spettacolo, teatro e cinema, musica e pittura, e via. Non a caso nel 1949 avevo studiato la appena nata “Teoria dell’informazione”.
Le nostre conversazioni sono state immediatamente “nutrienti” grazie ai comuni interessi, alla grande Cultura di Dario ed alla mia preparazione di ingegnere elettronico dagli interessi anomali. Il punto forte comune era operare per i minus sapiens, poiché è la cultura che rende liberi e, per potere fare cultura, contattando i Grandi e per collaborare con loro, avevo scelto la Fotografia, quella che mi ha consentito di costruire documenti unici sul fare poetico dei grandi intellettuali con cui ho collaborato facendo anche fotografia.
Quelle foto, infatti, non sono destinate ad essere appese ad un muro e basta, ma sono una overture che mi consente di parlare di cultura a decine di migliaia di giovani e no, ogni anno, non solo facendo loro scoprire il teatro, quello rivoluzionario linguisticamente di Dario Fo, ma rivelando anche i meccanismi del processo creativo in tutte le arti.

Come si è comportato il pubblico di questo progetto itinerante? Le reazioni sono diverse a seconda della cultura di appartenenza? Quanto è conosciuto Fo all’estero e quanto in Italia?

Grazie all’interattività, tra autore ed immagine nasce un dialogo che dà luogo a domande imperniate sul senso del lavoro e sul cosa rappresentano le immagini.
Le diversità appaiono nella differente cultura dei singoli, quasi nessuno conosce le regole della composizione di un’immagine, ed ancor meno la di􀁆erenza fra la composizione nella cultura occidentale e quella nella cultura orientale per cui, con ogni risposta, faccio un mini corso di semantica dell’immagine.
In tutto il mondo in cui ho presentato i lavori di Dario Fo il nostro Nobel è conosciuto e, spesso, più di quanto lo sia in Italia.

C’è uno scatto a cui è legato o un ricordo con Dario Fo a cui è particolarmente affezionato?

Sì, c’è. Si tratta di una immagine in cui Dario, al centro del palco, in piedi, sta agitando le mani che appaiono “sfocate da movimento”: quella foto è nata per dimostrare proprio che il recitativo non era mai statico ma dinamico.
Mentre facevamo quelle prove, noi due soli sul palcoscenico, Franca Rame, con suo divertimento, ci seguiva seduta in sala, talché ad un certo punto, con una espressione tipicamente milanese ha sigillato le nostre sperimentazioni con un “Sembrate due pirla!”

Lavorando a stretto contatto con grandi della cultura italiana e non solo, come ha fatto lei, si viene influenzati dal loro carisma? In che modo?

Ogni opera, bella o brutta che sia, è per ciascun autore come un figlio e, pertanto, un piezzo ’e core direbbe Edoardo. Ma se devo proprio indicarne una, ritengo Inno alla gioia, ovvero Europa. È quella che mi rappresenta di più, non solo per il risultato visivo ma anche per la concettualità simbolica di quel rebus. Simboleggia, infatti, i tre livelli dell’Europa: quello degli ideali, quello delle istituzioni e quello dei popoli. Come meglio si esplicita nella didascalia associata al quadro, di cui è parte integrante.
È proprio lo stretto contatto che non fa percepire il carisma destinato al pubblico. Quando gli argomenti della conversazione risultano molto complessi si stabiliscono rapporti ad elevata, autentica empatia ed anche di amicizia. In quel caso il contributo delle due parti diventa paritetico e non porta con sé nessuna connotazione di superiorità di “casta”.

Nelle sue rassegne c’è una forte interrelazione artistica, dalla fotografia al teatro, dalla pittura alla scultura. Il fatto che molte forme d’arte comunichino tra loro non dovrebbe stupirci, dovremmo essere educati a questo oppure, secondo lei, la questione va affrontata diversamente? E cosa direbbe Dario Fo?

È presente, a nostra difesa, la percezione separata, per ogni “categoria” artistica così, quando tre anni fa ho scritto su Facebook “Fotografia: Finalmente si parla di Cultura”, in relazione agli Stati Generali della Fotografia voluti dal Ministro Franceschini, 75 fotografia mi hanno scritto: “Cosa c’entra la cultura con la fotografa?” Viceversa, chi fa pittura o scultura è convinto di fare cultura con la C maiuscola, spesso una pia illusione. Tutti, proprio tutti, quando scelgono una qualsiasi forma di comunicazione esprimono sempre la loro cultura che, raramente, è meritevole della C maiuscola ma che, di certo, è l’impronta digitale (non elettronica, ma da digitus), del loro stato culturale meritevole, sia dell’appellativo più elevato o sia del pubblico ludibrio.
Dario Fo è stato uno studioso, uno storico, un letterato, e come tale ha potuto e saputo travalicare molte categorie passando dalla letteratura alla drammaturgia, dalla recita alla pittura, dimostrando che solo chi si è dato gli strumenti idonei, con lo studio, con la conoscenza, non solo può essere libero, ma può operare per la libertà altrui.


Roberto Villa
Roberto Villa
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